martedì 26 gennaio 2010

Mistero Buffino, e sottolineo ino.

Accettare il fatto che un uomo come Renato Brunetta esista è semplice: basta dare un'occhiata distratta in un Bar Sport di un qualsiasi angolo d'Italia, una sera qualunque. C'è chi lo vota. Ma accettare il fatto che egli sia Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione (boom!) e che in futuro -se serve una ciliegina sulla torta- aspiri ad essere il Sindaco di Venezia è difficile. Chissà che sapore ha la torta.

Certo, il nostro è il paese dove una signora Brambilla promuove il Turismo dando i numeri in libertà, o un tecnico delle emergenze come il signor Bortolaso critica gli aiuti americani ad Haiti come disorganizzati e precari. O dove il Presidente di una Regione -sedicente marito e padre esemplare- va con l'auto di rappresentanza per andare a casa di ragazze brasiliane di funzionalità sessuale imprecisata e quando lo beccano si ritira a pentirsi in un Monastero. Occhei. E non parliamo del Presidente del Consiglio con i capelli che vanno e vengono, della riabilitazione come perseguitato di un politico fuggito all'estero perché condannato per vari reati. Facciamo che tutto questo sia politica, e che la politica ci faccia schifo.

E torniamo a Brunetta dei Ricchi e Poveri: vuol mettere infatti le mani in tasca a tutti noi, e spostare gli euro come Silvan. Anzi come un Robin Hood in acido che ruba ai pensionati... per dare aiuto ai gggiovani italiani che accusa di essere "bamboccioni".

In un programma TV, per l'esattezza Domenica In (ma sarebbe stato più adatto la Corrida), ha buttato lì l'ideona. Aiutare ogni gggiovane italiano con 500 euro al mese, sotto forma di sgravi, borse di studio, prestiti d’onore, detrazioni sull'affitto e incentivi per mettersi in proprio, e aiutarli ad uscire di casa.

E dove li piglia i soldi per questo nuovo miraculo italiano? Dalle pensioni di anzianità (ossia dai 55 anni in poi), correggendo “anomalie e distorsioni del sistema pensionistico e di welfare che dà troppo ai padri e quasi nulla ai figli”. Immagino quindi che non verrà aiutato nessuno di pelle nera o nato anche solo a 2 km dal confine italiano.

Tempo fa rimasi basito quando Bossi e la Lega Nord definivano il loro programma politico con la parola "devolution" ("poveri Devo!" ho pensato, ma Mark Mothersbaugh & co non ne avevano colpa e ho continuato ad ascoltare Beautiful World o Mongoloid come capolavori).

Ma se i Devo accusavano i Rolling di aver loro rubato Satisfaction, e oggi bisogna andare avanti nello show... oggi che il Ministro Brunetta batte i leghisti (batte tutti) in capacità di attirare l'attenzione, dobbiamo aiutarlo con la musica.
Non potrà forse usare Arbeit Macht Frei facendola passare per una canzone dei Kraftwerk (o dei Rockets)... ma magari potrà commentare la sua ideona con un remake splatter downbeat di "Chi non lavora non fa l'amore" o dedicata alla sua Venezia "Finché la barca va".
E usare un simbolo della gioventù italiana che ce l'ha fatta, come Noemi Letizia.

domenica 17 gennaio 2010

FUFI? NO, TOM (uno psicopremio milanese).
















Uno può pensare quel che vuole dell’identità omosessuale, ossia se l’orientamento del desiderio ha senso per definire una persona. Io credo personalmente sia un incidente di percorso della catalogazione scientifica. Il desiderio dà fastidio, e siccome non si sa mai come mettere ordine in quel campo, l’ossessione catalogatoria del positivismo inventò il ripostiglio omo e quello etero. Anzi bisogna essere grati alla par condicio che almeno registrò la presenza di omo (seppur come difetto). Certo, sperare che il desiderio omosessuale fosse riconosciuto come un’espressione creativa della natura, una specializzazione legata al miglioramento di genere, o un sistema per rendere più confortevole l’esistenza umana sarebbe stato troppo.
Comunque sia, con l’equivoco della cosiddetta "omosessualità" dobbiamo fare i conti tutti ancora oggi, tentando magari di allargare un po’ visuale: chi a suo tempo inventò il termine “uraniano”, o chi propose “gay cercò di porre la questione fuori dalla genitalità. Poi ci fu Stonewall, volarono tacchi e bottiglie, arrivò il Gay Pride. E parallela ci fu la moda con il riconoscimento agli uomini che amano gli uomini di “avere gusto” e infine la metrosexuality ossia i maschi “etero” che diventano più froci degli stilisti (per piacere alle donne?).

Moda e look sono sempre stati del resto una valvola di sfogo molto importante in tutte le nazioni dove “si fa ma non si dice” (per esempio in Vaticano). E sono un riferimento fondamentale anche per tutte le persone pudiche o timorate di un qualche dio, tipo le sciure che non vogliono immaginarsi cosa succede nel letto tra 2 uomini ma si vantano –presempio- di avere un parrucchiere che le capisce.
Questo spiega perché una di loro, il Sindaco di Milano Letizia Moratti che tolse riconoscimento al Festival di Cinema Gaylesbico della città o addirittura impedì l’apertura di un’esposizione “Vade Retro” perché tentava di fare il punto sul rapporto tra arte e omosessualità (licenziando anche l’eterosessualissimo Assessore alla Cultura Vittorio Sgarbi) oggi premia con un’omoreficenza che chiameremo per comodità lo Sbadiglio d’Oro lo stilista texano Tom Ford, in occasione della sua trasmutazione a regista con un film tratto dal libro di Christopher Isherwood “Un Uomo Solo”.

Gli omosessuali ti arredano l’immaginario e fanno chic: come un tempo avevi il chihuahua o ti piace il sushi, DEVI apprezzare la moda, soprattutto se lo stilista è bellissimo e intelligente come Tom Ford e se giudica la città del sindaco premiatore “creativa e gentile” (nel pensarlo, è aiutato dal fatto di non essere mai uscito dalla cerchia dei Navigli se non per andare all’aeroporto).

Ma torniamo all’osannato primo film di Tom Ford: con un particolare tocco da Re Mida trasforma precisione e angoscia minimale di Isherwood in stilismo. Vorrei dire che l’intimismo diventa Intimo di Karinzia. Se il libro è una carazza inquieta (si può diventar vecchi con leggerezza quando fronteggi il dramma della morte?), il film è un set, un wardrobe, un trucco e parrucco.
Anche Gus Van Sant aveva fatto un’operazione di bonifica e candeggio: la promiscuità sessuale era stata per esigenze di sceneggiatura cancellata dalla vita di Harvey Milk o dalla San Francisco anni 70.
Ma qui siamo alla trasformazione della libido o o del dramma in centrino o abat-jour. Espungi un cazzo qui e una palpata là, arriva l’effetto Elle Decor: se dovessi infatti dire la cosa che più mi ricordo del film sono la casa e il look di Julienne Moore (straordinaria attrice come sempre).

Nel film, e vado random nel dire ciò che mi ha annoiato... Non si vede MAI desiderio fisico, è tutta idealizzazione: froci ok, basta che non si tocchino - Seduti sul divano uno legge Ovidio, l’altro Truman Capote (Colazione da Tiffany) - Il locale di cruising e d’incontro gay? E’ un bar qualsiasi dove i marinai vanno con donne che sembrano uscite da una sfilata (nel film sono tutti truccati e ipervestiti) – La marchetta con cui si allude? E’ uno spagnolo di Madrid - Il tema dell’invisibilità gay? Più volte accennata con la metaforona della casa tutta vetri.
Ma infatti, come riportava Natalia Aspesi, per Tom Ford “è casuale che sia una storia di uomini, anche nei legami eterosessuali perdere la propria donna, il proprio uomo è devastante, insopportabile”. Scüüüüsaaa, che filosofaaaa!

Dunque guardiamo questo film per quel che è: il film di uno stilista (non su uno stilista come quel capolavoro che è “Valentino”). E se anche la mia amata Miss Aspesi approva su La Repubblica, è perché anche lei ha bisogno del parrucchiere, o di sognare un uomo bello come lo zio Tom. E va riconosciuto che, se io mi sono addormentato, “A Single Man” è una pellicola che vede il tutto esaurito nelle sale dov’è proiettata.

Se l’ennesima conferma della bravura di Colin Firth servisse (non bastava “Matrimonio all’Inglese”?) ad aiutare la povera omosessualità a trasformarsi in possibilità d’amore (come forse auspicava Isherwood), o anche solo a far entrare più omosessuali nell’ospedale ove l’amato sta soffrendo o morendo (come auspica Ford) lo sbadiglio sarà d’augurio.